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Le tre età dell’uomo

Tiziano


Giovan Battista Salvi, detto il Sassoferrato, Le tre età dell’uomo, da Tiziano, 1682 circa olio su tela, cm 93 x 153,5 Roma, Galleria Borghese, inv. 346

Il dipinto è una versione seicentesca, attribuita al Sassoferrato, delle Tre età che Tiziano esegue all’inizio del secondo decennio del Cinquecento e oggi presso la National Gallery of Scotland. 

Come nell’originale tizianesco, la rappresentazione si svolge in un paesaggio. A sinistra una coppia di giovani è adagiata su un prato fiorito: il ragazzo è pressoché nudo, poggia il proprio flauto a terra e scambia intensamente il proprio sguardo con quello di una fanciulla con i capelli ornati da una coroncina di mirto. La ragazza ha due flauti: uno appena più vicino alle labbra, l’altro allusivo alla evidente tensione erotica che intercorre tra i due, protagonisti di un duetto musicale appena interrotto e sul punto di passare dall’esperienza musicale a quella amorosa. Sulla destra due putti dormono abbracciati, vegliati da un Amorino che sembra sorreggere il tronco di un albero secco. Poco più in là, un vecchio seduto tiene in mano un teschio, circondato da altri tre (e da alcune ossa) nell’esemplare Borghese, limitati a due nel dipinto di Edimburgo: è questa la più importante differenza compositiva tra i due quadri.   

Nelle Tre età di Edimburgo Tiziano mette in scena la vita dell’uomo, che scorre all’insegna del sottile equilibrio tra voluptas e virtus, e che si svolge e riavvolge dalla fanciullezza (due sono i putti vegliati da Amore) alla maturità (due sono i giovani intenti in un rapporto amoroso), che nel vecchio genera solo rimpianto di inutile vanità (due sono i teschi su cui riflette), destinata a morire come tutte le cose. È un ciclo continuo, inevitabile, uguale a se stesso, all’interno del quale l’umanità è sempre di fronte a scelte universali, tra possibili cadute e bramata eternità: temi centrali nella produzione del giovane Tiziano, e diversamente declinati nell’attività più tarda e finale, come nella Ninfa e pastore di Vienna, presentata in questa esposizione.

Le radiografie del dipinto di Edimburgo, pubblicate nel 1971, hanno mostrato un’idea dell’opera diversa in origine, e vicina, soprattutto per il numero di teschi, proprio alle due versioni note della tela di Tiziano, pressoché identiche fra loro: gli esemplari Borghese e Doria Pamphilj. 

Il tema è ampiamente dibattuto, e la critica ha avanzato la possibilità che dalla stessa bottega tizianesca fossero uscite almeno due versioni di questa allegoria sulla vita umana, di cui solo una giunta fino a noi, presente a Roma tra Cinque e Seicento. Da quest’ultima con ogni probabilità fu tratta la tela Doria, già registrata in collezione Aldobrandini nel 1603 come Tiziano e come tale ritenuta per quasi tutto il Seicento, in un contesto come quello romano in cui opere di bottega o perfino realizzate alla maniera del maestro circolavano e affollavano le collezioni aristocratiche e cardinalizie come Tiziano tout court, destando ammirazione degli amatori, sollecitando l’attenzione di artisti in viaggio o residenti, originando copie. 

Entro questo orizzonte con ogni probabilità viene prodotto l’esemplare Borghese, forse all’inizio degli anni Ottanta del Seicento, quando a seguito della morte di Olimpia Aldobrandini si diede corso alla divisione dei beni tra i due eredi, in parte confluita nella quadreria Borghese, che deve essere stata l’occasione per far realizzare una copia del dipinto, rimasto al ramo Doria Pamphilj, ancora e allora ritenuto originale di Tiziano. Da ciò deriverebbero da un lato lo scarto stilistico tra le due versioni, dall’altro, al contrario, la somiglianza compositiva fin quasi alla sovrapposizione. In più, l’esemplare Borghese è ricordato nella collezione di famiglia solo dal 1700. 

 




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