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Venere che benda Amore

Tiziano


Tiziano, Venere che benda Amore, 1565 circa olio su tela, cm 118 x 185 Roma, Galleria Borghese, inv. 170

Non si hanno notizie accertate sulla committenza del dipinto, databile intorno al 1565: né documentarie né provenienti dai biografi contemporanei. Non trova tutti concordi l’ipotesi che l’opera fosse destinata ad Antonio Pérez, il segretario di Stato di Filippo II caduto poi in disgrazia, che possedeva un “quadro de la diosa Venus Ventando Los ojos A su hijo cupido y otras ninfas q le traen presentes”. La critica ha però sempre ritenuto questo “quadro”, registrato senza indicazione dell’autore nell’inventario di Pérez, quale copia (perduta) della tela oggi nella Galleria Borghese, una delle repliche e varianti delle fortunate invenzioni tizianesche licenziate dalla bottega.  

La prima menzione certa dell’opera è romana, e già in casa Borghese. Nel 1613 viene ampiamente illustrata da Scipione Francucci nella sua Galleria e, sembra, dotata di una nuova cornice (conto di Annibale Durante per “una cornice indorata con li fogliami di rilievo intagliati data di vernice e sui filetti dorati serve per il quadro di Tiziano in Sala longa 8 alta 6”). Testimonianze così precoci della presenza di Venere che benda Amore nella quadreria Borghese hanno suggerito che avesse potuto far parte della vendita Sfondrato (1608), senza tuttavia alcuna certezza. 

In occasione del suo soggiorno romano, tra il 1622 e il 1623, Van Dyck ritrae il dipinto nel suo taccuino di schizzi (Londra, British Museum), probabilmente nella villa dove è certamente attestato nel 1650. Come la gran parte della quadreria, nella seconda metà del Seicento anche questa tela viene trasferita nel palazzo di famiglia a Ripetta: nella villa fuori porta Pinciana verrà sostituita da una copia, ricordata da Domenico Montelatici nel 1700. A parte il passaggio torinese e parigino al seguito del principe Camillo e di Paolina Bonaparte tra 1808 e 1816, si conserverà nel palazzo fino alla fine dell’Ottocento. Nel 1891 è già di nuovo in villa: vi rimarrà, lasciando l’edificio in occasione di esposizioni temporanee (la prima nel 1935), e durante la guerra, trasferita nei sicuri ricoveri delle Marche e del Vaticano.

Nel dipinto sono rappresentate tre figure femminili e due Amori. A sinistra siede una donna vestita di bianco e ornata di gemme, gioielli e perle, identificata con Venere; è raffigurata in atto di voltarsi appena verso un Amore che le si appoggia sulla spalla. Al centro, un secondo Amore nasconde il capo tra le ginocchia della dea, impegnata a tenere i lembi di un nastro con cui Amore si trova bendato. A destra, due donne recano arco e frecce, similmente vestite: quella in primo piano, ha i capelli sciolti e mostra un seno scoperto. 

La scena risulta da sempre di difficile interpretazione: negli inventari della collezione Borghese prevale col tempo l’identificazione delle donne come le “Tre Grazie”, mentre sul finire dell’Ottocento sembra preferirsi la denominazione di Venere che benda Amore. Nel corso del Novecento sono state avanzate letture più complesse, e un cenno particolare meritano gli imprescindibili saggi iconologici di Erwin Panofsky (1939 e 1969) che hanno influenzato molte generazioni di studiosi. È Panofsky ad introdurre un’interpretazione neoplatonica del dipinto, a identificare i due cupidi in Eros e Anteros (ovvero l’Amore passionale, cieco, e l’Amore divino, razionale ed elevato), e ad avanzare l’ipotesi che il quadro sia un’allegoria dell’amore coniugale in cui Venere ha il ruolo di protettrice della felicità matrimoniale. La critica è oggi generalmente concorde su questa lettura del dipinto in chiave matrimoniale: un’invenzione tizianesca intorno ai temi già praticati dell’amore coniugale che, sapientemente controllato da Venere, deve trovare un equilibrio tra Anteros ed Eros, tra un amore divino, razionale, e uno terreno, bendato. Il gesto sospeso di Venere, che tiene ben in evidenza i lembi del nastro di color giallo ma non compie né l’azione di stringere la benda né tantomeno di scioglierla, è ancora un segno visibile di regolata moderazione, oltretutto posto da Tiziano al centro della composizione. Venere assume le qualità della sposa, e ne indossa abito e attributi. Rimane tuttavia su un piano elevato e non mondano: forse per ragioni legate a una committenza non più portata a termine, Tiziano muta una prima idea, visibile in radiografia, in cui la donna era dotata di un elegante cappellino con una piuma. 

Se Venere incarna l’allegoria del matrimonio, le due figure femminili (diversamente individuate come ninfe o Grazie) portano e offrono le armi di Amore e la loro nudità virginale. 

La composizione è chiara e simmetrica, equilibrata, come lo deve essere Amore in questa allegoria matrimoniale. Per raggiungere questo risultato Tiziano modifica ulteriormente una prima composizione (visibile nella riflettografia all’infrarosso) che prevedeva una terza figura: una donna, sembra, che tiene in alto un vassoio o una cesta, cioè un tipo molto utilizzato nella produzione di questi anni. Realizzata ben oltre lo stato di abbozzo, anzi sufficientemente finita, fu cancellata perché evidentemente non più funzionale al significato allegorico che il maestro andava definendo. 

In questa ricerca di equilibrio, e nell’eliminazione di una figura, Tiziano recupera anche un paesaggio, benché in secondo piano, al quale tuttavia conferisce la dignità di una posizione centrale, attribuendogli il ruolo di pausa, pressoché disabitata, e immobile, come le alte montagne, le sue, nel limite ultimo del dipinto.

 




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