Amor sacro e Amor profano
Tiziano
Amor sacro e Amor profano è stato oggetto di numerosissimi studi. La critica moderna, seppur con qualche divergenza, tende a leggere il dipinto come una allegoria matrimoniale, commissionato in occasione delle nozze celebrate il 17 maggio 1514 tra il veneziano Niccolò Aurelio e Laura Bagarotto: gli stemmi delle due famiglie, posti quasi in asse l’uno con l’altro, compaiono rispettivamente sul fronte della fontana/sarcofago e sul fondo del bacile d’argento.
Laura era figlia del padovano Bertuccio Bagarotto, coinvolto nella formazione di un breve governo locale ostile alla Serenissima e perciò giustiziato nel 1509 (su delibera del Consiglio dei Dieci, di cui lo stesso Aurelio era segretario dal 1507) insieme al genero, il nobile padovano Francesco Borromeo e sposo di Laura. Rimasta vedova, orfana di padre e privata della dote, aveva dovuto accettare di unirsi nuovamente in matrimonio con l’uomo che, di ceto sociale inferiore al suo, aveva firmato il mandato esecutivo di condanna nei confronti della sua famiglia e del marito. La restituzione della dote avveniva un giorno prima delle nozze: era l’atto formale che reintegrava la dignità della donna necessaria alla celebrazione del suo nuovo matrimonio, riscattandola e consentendole di rivendicare rango e ruolo di sposa esemplare. Fu forse questo che spinse Tiziano a cambiare il colore dell’abito della donna di sinistra, da rosso (come risulta dalle indagini diagnostiche condotte sul dipinto) a bianco: il colore della sposa.
Ogni elemento del dipinto fa eco a questa allegoria dell’amore coniugale, una delle prime di Tiziano.
Al centro della composizione sta un sarcofago, ornato con un fregio classico in cui è rappresentata una scena di castigazione dell’amore ferino: da sinistra, una figura maschile muove un’insidia a una fanciulla afferrata per un braccio; davanti a lei sta il bel cavallo privo di briglie (simbolo di passione incontrollata), frenato da una seconda figura maschile, quasi completamente coperta dal piccolo arbusto centrale; verso destra, alla presenza forse della stessa fanciulla, la violenza passionale viene punita con la fustigazione. L’acqua che riempie il sarcofago lo trasforma in fonte, e il getto rende fertile il prato: la morte si trasforma in vita, grazie alla forza generatrice (e temperante) di Amore, il fanciullino con le ali che mescola le acque. Sul sarcofago/fonte stanno sedute due figure femminili, simili al punto da considerarle gemelle. A sinistra, troviamo la donna vestita con gli abiti e gli attributi della sposa, la cintura simbolo dell’amore coniugale come anche il mirto e le roselline, attributi di Venere. Ai suoi piedi il terreno è un manto erboso morbido e fiorito. Dietro di lei si apre un paesaggio che fa eco al suo significato: vi si trovano la coppia di lepri (augurio di unione feconda) e la città sulla collina, che sottolinea la dimensione civile entro cui si colloca la condizione matrimoniale. A destra, la nudità dell’altra donna – appena coperta da un drappo bianco sul grembo arricchito da un altro, rosso, più ampio – allude alla sublimazione della verità e della bellezza divina, che non ha bisogno di orpelli: nella mano sinistra un vaso acceso della fiamma d’amore divino. Accanto a lei il terreno è arido, perché l’esercizio della virtù è difficile, e aspro, come uno spiazzo pietroso. Alle sue spalle, oltre la siepe che chiude il suo spazio simbolico, si scorgono due cavalieri intenti in attività di caccia, due cani che inseguono una lepre, un pastore con il gregge e una coppia di giovani amanti. Sullo sfondo, si apre una veduta su un paese (lagunare?) dominato da un campanile, che segna il tempo del quotidiano. Il gioco di sguardi tra le due donne finisce per richiamare l’osservatore: la nuda si volta verso la vestita, invitandola a percorrere la strada della virtus, difficile e separata dal mondo (la siepe); la donna abbigliata incontra direttamente gli occhi di chi la guarda, entrando dunque nella realtà, e attestando verso l’esterno la sua dimensione di donna e di sposa.
Le fonti e gli inventari ricordano le due donne per lo più come due Veneri, ma anche come personificazioni dell’Amore sacro e dall’Amore profano (antico titolo del dipinto ancora oggi utilizzato). Una celebre interpretazione in chiave neoplatonica (Erwin Panofsky, 1939 e 1969) le leggeva come Venere celeste e Venere volgare, o Venere ‘terrena’, e il Cupido veniva considerato simbolo dell’unione tra cielo e terra: il che ben si lega alla lettura del dipinto come allegoria matrimoniale, e del complesso rapporto tra virtus e voluptas.
Sebbene non si abbiano notizie certe sulla sua provenienza (forse dalla vendita della raccolta di Paolo Emilio Sfondrato, 1608), l’opera entra nella collezione Borghese con Scipione: è con ogni probabilità già ricordata nel 1613 (descritta nella Galleria di Scipione Francucci), e sicuramente è nella villa fuori porta Pinciana nel 1622-23, quando Antoon van Dyck la disegna nel suo taccuino di schizzi italiano conservato al British Museum. Nel corso della seconda metà del Seicento, come la maggior parte dei dipinti, la tela fu spostata nel palazzo di famiglia a formare la quadreria ammirata da curiosi e intendenti d’arte. Vi rimarrà per tutto il Settecento e, se si esclude il viaggio al seguito di Camillo e Paolina prima a Torino e poi a Parigi tra 1809 e 1816, per buona parte dell’Ottocento. Alla fine del secolo sarà quindi di nuovo trasferita nella villa.