GIACOMETTI. LA SCULTURA
Dal 5 febbraio fino al 25 maggio 2014 la Soprintendenza Speciale per il Patrimonio Storico Artistico ed Etnoantropologico e per il Polo Museale della Città di Roma, diretta da Daniela Porro, presenta all’interno delle sale della Galleria Borghese, diretta da Anna Coliva, la
mostra Giacometti. La Scultura.
Sotto l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica, la mostra è promossa dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, curata da Anna Coliva e da Christian Klemm, illustre studioso dell’opera di Giacometti e realizzatore delle monografie più importanti sull’artista, e organizzata e prodotta da Arthemisia Group. L’esposizione porta a Roma l’arte indiscussa e drammatica di uno dei più grandi artisti del’900.
La Villa Pinciana, nobile scenario di capolavori è, per definizione, soprattutto il luogo della scultura, grazie alla presenza nella collezione di sommi esempi dell’epoca greca e romana, del Rinascimento, del Barocco e del Neoclassicismo.
La meta di questo viaggio attraverso i secoli è l’interpretazione statuaria della figura umana nel XX secolo, che si concretizza nell’arte di uno dei più grandi del ‘900: Alberto Giacometti.
Il desiderio di raccontare la tragicità della scultura moderna a confronto con la classicità del passato è stata dettata da una riflessione sulla poetica di Giacometti, fortemente emblematica di un secolo che vede grandi sconvolgimenti politici, storici e culturali. I curatori
della mostra hanno voluto raccontare attraverso il percorso come muti la visione degli artisti nel confrontarsi con la raffigurazione dell’essere umano.
La mostra dunque è occasione per raccontare l’artista – visionario, onirico e surrealista, fautore di un segno indelebile nell’arte – e soprattutto far vedere la sua opera in dialogo con i capolavori della Galleria: le forme sinuose e bianche della Femme couchée qui rêve (1929) in cui si scorgono quelle della Paolina di Canova (1805/1808), il cui volto è riflesso, sull’altro lato, nella Tête qui regarde (1928); il passo pesante dell’Homme qui marche (1947), in cui risuona l’eco di quello affaticato di Enea sotto il peso di Anchise (1619); la Femme qui marche (1932/1936), nera e misteriosa come le sfingi di basalto della Sala egizia; l’equilibrio instabile dell’ Homme qui chavire (1950), fuori asse e pronto a perdere l’equilibrio come il David di Bernini (1623/1624).
Tra le 40 opere esposte, bronzi, gessi e disegni innescano nel contesto della Galleria l’energia bruciante dell’arte di Giacometti, che indaga la profondità vitale dei soggetti, scavandone l’anima fino a “ridurre all’osso” la figura umana: questa la tragica modernità
trasmessa al visitatore che percepirà come le sculture di Giacometti creano attorno a loro l’alone volumetrico di una drammatica cornice immateriale, invisibile ma sensibile.
LA MOSTRA
Nello spettacolo visivo della Galleria Borghese la rappresentazione dell’umanità di Giacometti risalta l’uomo e il suo fatale fallire che diventa la tragica conquista della modernità.
A contrasto col passato si esalta la grandezza dell’uomo nei secoli e la mostra racconta – anche attraverso la metamorfosi della Galleria – un’inesauribile complessità dell’essere umano.
1. Salone – Le sculture per la Chase Manhattan Plaza
Nel Salone che accoglie il visitatore in mostra è stata ricostruita la Chase Manhattan Plaza con le opere di Giacometti quali Donna in piedi I (1960), Grande donna II (1960), Uomo che cammina I (1960).
Quest’opera riunisce non solo i tre temi più importanti della sua produzione matura, ma anche i diversi aspetti delle precedenti composizioni quali La Place e La Foret.
Le figurine minuscole create dallo scultore durante la guerra per rendere l’impressione della persona vista da grande distanza, si trasformano in figure a grandezza maggiore del naturale.
Creare sculture monumentali per uno spazio pubblico è da sempre l’aspirazione di ogni scultore e anche per Giacometti questo incarico aveva l’aura nostalgica di un’impresa nella quale ripetutamente si era avventurato, anche se nessuno dei suoi progetti venne mai realizzato.
Le opere esposte furono create in seguito all’invito dell’architetto Gordon Bunshaft a realizzare monumenti per la Chase Manhattan Plaza, nello spazio antistante il grattacielo di sessanta piani dell’omonima banca.
2. Sala del Canova – Il sentire plastico
Il grande talento di Alberto Giacometti per la forma si manifestò molto presto e a soli diciassette anni è già autore di disegni magistrali. Diventare uno scultore professionista, tuttavia, non sembra cosa facile. Ma dopo una prima crisi nel 1920/21 e un successivo
allontanamento dal figurativismo per recepire la lezione cubista, la sua arte svolta verso la scoperta di una forma del tutto personale. Nel 1928 nasce l’opera Testa che osserva (1928), in mostra nella Sala del Canova accanto alla Paolina Borghese. Opera compiuta dal punto di vista formale, caratterizzata da un’estrema essenzialità, la sua pura astrazione evoca la figura e la materialità.
In questa sala anche Donna sdraiata che sogna (1929), Uomo (Apollo) (1929), Donna sdraiata, (1929) che a confronto con il turgore organico, la tensione muscolare e la purezza dei contorni dell’opera del Canova, evidenziano in Giacometti – cosa piuttosto insolita per uno scultore – la tendenza alla leggerezza, alle forme concave e forate.
3. Sala del David – Il vedere
Nella Sala del David, Bernini “insegna” con la propria opera a vedere l’intensità delle sculture di Giacometti: l’energia statica del David si contrappone al movimento oscillante de L’uomo che vacilla.
Quello che per l’artista moderno è qualcosa di momentaneo perché in perenne movimento, per Bernini può rimanere nella sua posizione solo per un attimo. Il movimento rotatorio applicato a una situazione altamente drammatica è radicalmente trasformato dallo scultore svizzero e mostrato come condizione universale dell’essere umano. La superficie dell’opera colma di tracce per far muovere l’occhio di colui che osserva, testimonia il lavoro fenomenologico di Giacometti nel suo tentare di rendere percettibile il processo della visione.
4. Sala di Apollo e Dafne – Evocazione del movimento nell’immobilità
Evocare il movimento come emozione fisica e psichica in sculture che rimangono fisse e immobili: questa l’aspirazione fondamentale del Bernini, la cui opera più esplicativa in tal senso è Apollo e Dafne.
Giacometti è consapevole di questa contraddizione fin da giovane: nel grande autoritratto del 1921 dopo il suo ritorno dall’Italia, suggestionato dall’esempio dei timpani dei templi classici, si rappresenta nella tipica posizione della “corsa in ginocchio” di Medusa, il cui sguardo pietrifica chiunque osi guardarla. Egli sovverte il problema facendo ricorso alla percezione: sono gli incessanti movimenti dell’occhio che, nell’immaginare le forme, devono rendere viva la creazione originale. In tal senso, la sua prima opera è Donna in piedi del 1948, realizzata nel dopoguerra quando si moltiplicano le Femmes debouts, tra cui spicca il gruppo delle Femmes de Venise; qui e
nelle quattro Grandes Femmes successive Giacometti esplora diverse possibilità di stilizzazione formale della figura femminile.
Alcune opere del 1956 appartenenti al gruppo delle Femmes de Venise (1956) sono nella Sala di Apollo e Dafne. In queste sculture l’artista esplora diverse possibilità di stilizzazione della figura femminile e, come Dafne si trasforma in un albero, così anche nelle donne di
Giacometti la metamorfosi è legata a una presenza universale: piedi enormi, simili a radici, ancorano al suolo le forme alte e sottili e le superfici sono screpolate come cortecce. Le piccole teste sono come prospetticamente assorte; un flusso ininterrotto spinge verso l’alto
l’intera forma.
5. Sala degli imperatori – Una scultura come frammento
Il fatto che le rappresentazioni di parti del corpo possano essere viste come opere d’arte
compiute risale alla riscoperta, tra le rovine di Roma, delle antiche sculture e più esattamente di un torso che per disposizione di Michelangelo non venne completato, bensì lasciato nel cortile del Belvedere in Vaticano, dove divenne l’oggetto di studio prediletto degli scultori in erba. Più tardi a partire da Rodin, la resa espressiva del busto costituisce una sfida particolare, tanto che anche Giacometti esordisce al Salon des Indépendants del 1925 con un torso, la sua prima scultura per così dire astratta. Poco dopo crea un’altra composizione, che fa pensare al cubismo, chiaramente ispirata al frammento di una scultura sumera con due mani intrecciate. Su questa scia nel 1932 Giacometti esegue Main prise – una mano di legno intrappolata in un ingranaggio – mentre l’opera La Mano in mostra a Roma è del 1947, quando l’artista torna sul tema con una più forte drammaticità espressiva dopo il riavvicinamento all’arte figurativa e l’esperienza della guerra.
Con le sue dita allargate, la mano ricorda all’artista – lo dirà in seguito – un braccio staccato dal corpo che vide nel 1940 durante la fuga da Parigi. Appaiono qui per la prima volta superfici screpolate e frastagliate che hanno una precisa corrispondenza con la realtà, perché rappresentazione di orrende ferite. Questo diviene ben presto un mezzo espressivo, che prende le distanze dal figurativismo.
Anche i busti romani, le cui versioni settecentesche sono esposte in questa sala, devono la loro origine al culto dei morti e il mito del rapimento della dea della fertilità Proserpina da parte di Plutone raffigurato dal Bernini nel drammatico gruppo scultoreo, è al centro dei misteri eleusini, nei quali l’iniziato può fare esperienza del superamento della morte. In questa sala, accanto ai busti romani, anche Cubo (1933), Oggetto invisibile (1934 – 35), La gamba (1958).
6. Stanza dell’Ermafrodito – Donna cucchiaio e Donna sgozzata
Figure femminili sembrano essere sempre presenti nel lavoro di Giacometti, che nella sua prima grande femme crea una forma femminile diversa e unica, la Donna cucchiaio. In questa sua prima “grande femme”, seguita dalle altre che segneranno uno degli apici del suo
lavoro, l’artista unisce le due diverse fonti di ispirazione della sua prima fase, quella dell’avanguardia: il rigore formale del cubismo con la simmetria ieratica e la stilizzazione audace ed espressiva della scultura africana. In questa opera il ricorso alla forma di un “cucchiaio” serve a evocare in modo efficace l’idea di donna, la cui presenza riecheggia solo nel titolo. È proprio il titolo infatti a provocare inizialmente un senso di smarrimento per il suo contrasto con l’oggetto rappresentato; la negazione dei tratti umani trasforma l’essere torturato in strumento di tortura. Un grembo si inarca richiamando quello di una divinità primitiva della fecondità, avvicinandosi e allontanandosi, aprendosi e ritraendosi agli occhi di chi lo guarda. Le forme cristalline della vita, seni e testa fuggono verso l’alto, fluttuando come un’apparizione. Il vuoto concavo inafferrabile e il motivo ovale dominante che spinge in direzioni opposte sembrano raccontare una frustrazione quasi erotica, non dissimile dall’effetto dell’Ermafrodito.
Tra quell’antica figura sdraiata sul suo materasso di marmo e la non meno insolita Donna sgozzata dello svizzero c’è un fil rouge che le ricongiunge: entrambe contengono un contrasto quasi irritante di forme concave e convesse; le loro membra si muovono in
direzioni opposte e – aspetto particolarmente bizzarro – si mostrano in due condizioni contrarie. L’una giace quasi addormentata, mentre l’altra con le sue membra instabili e lontane appare morta e calpestata, ma osservata da lontano sembra una creatura che si affretta
minacciosamente.
7. Sala di Enea e Anchise – La condensazione iconica. L’Uomo che cammina
Nata come schizzo per il monumento alla memoria del deputato comunista Gabriel Péri, L’Uomo che cammina è la scultura più celebre di Alberto Giacometti, concepita per far tornare l’anima del defunto e renderla partecipe della luce del giorno. La sua esitazione nel
tentare il primo passo trasforma questa figura geroglifica, risalente agli inizi della civiltà, in qualcosa di soggettivo e di precario.
Con le sue creazioni quasi sfuggenti e senza gravità, Giacometti racconta l’antica tradizione della raffigurazione dell’uomo: l’inquietudine tra l’incedere della figura, la fragilità del suo ergersi e l’umile consistenza della materia somiglia alla condizione stessa della creatura umana. La sua caducità, fatta di dignità e debolezza, è la realtà «insistente» che prosciuga
l’uomo, perché non gli concede mai un annullamento definitivo e totale. Le sue figure sospese, infatti, mantengono sempre un minimo comune denominatore che le lascia riconoscere ancora come sembianza umana. Non rappresentando quasi più niente di fisico, sono in altre parole ridotte a dei “segni”. La grande opera L’Uomo che cammina del 1947 è rimasta unica: il suo messaggio non era passibile di ulteriori elaborazioni o approfondimenti. Le figure incedenti create nei tre anni successivi hanno tutt’altro carattere.
8. Sala egizia – Origini egizie
Per tutta la vita affascinato dalla perfezione e dal rigore dell’arte egizia, incarnazione stessa dello “stile”, Giacometti, già al ginnasio, tiene una conferenza sul tema della superiorità della scultura egizia rispetto a quella greca. Da quando, nel 1920, a Firenze vede per la prima volta alcuni originali egizi copia spesso quelle opere d’arte.
In seguito, si reca a Roma per studiarne altri esempi e tornato a casa si raffigura nel grande autoritratto con i tratti stilizzati secondo il modello del volto di Akhenaton. Nella Sala Egizia della Galleria Borghese è esposta Donna che cammina del 1932, opera
eccentrica e priva di legami con le altre opere surrealiste dell’artista. Questa figura, caratterizzata da un’estrema compiutezza formale, è più vicina agli objets décoratifs che Giacometti aveva realizzato per l’ensemblier Jean-Michel Frank e la sua elegante boutique del Faubourg Saint-Honoré, in parte anch’essi d’ispirazione egizia. Con il ritorno all’arte figurativa, il confronto con la scultura egizia diviene un tema centrale e nel 1936 realizza il ritratto egizianeggiante della compagna Isabel.
9. Vestibolo
Giacometti ha sempre disegnato, fin dalla sua più tenera età e per tutta la vita, senza nessuna interruzione. Era il mezzo principale per indagare la realtà e catturarne rapidamente l’essenza più vera, prima che l’apparizione scomparisse o si attenuasse in un ricordo vago, oppure si trasformasse in qualcosa di diverso. In mostra l’acquarello Roma (1921) ci riporta alla gioventù dell’artista e al suo felice soggiorno romano, così ricco di esperienze artistiche. Era stato il padre a insegnargli l’uso della tecnica dell’acquarello, che Alberto seppe utilizzare con fresca inventiva, come in questa ariosa e vivace composizione. Tuttavia, anche questa nuova visione, differente ma non meno affascinante, meritava di essere indagata fino in fondo e fissata sulla carta in un gioco continuo che trasformava la realtà in un’entità meravigliosa, in quanto impossibile da comprendere pienamente.
Un’avventura sempre originale e affascinante che scaturiva sia di fronte a un oggetto a prima vista banale, sia guardando i volti delle persone a lui più vicine, come il fratello Diego o la moglie Annette. Modelli pazienti che hanno posato per lui numerose volte, ma che
Giacometti dichiarava di non riconoscere più, alla fine, a furia di osservarli. Così nascono Portrait de Madina Visconti (1932), Testa di Annette (1959) e la Testa del Professore Corbetta (1962), che mostrano allo spettatore sia il suo tratto libero e sciolto sia quello
caratterizzato da una struttura più rigida di punti immaginari legati tra loro da linee.
10. Loggia di Lanfranco – Busti
Il percorso espositivo si conclude nella magnifica Sala del Lanfranco, dove le figure mitiche della volta affrescata dialogano con le opere del Bernini e alcuni tra i più noti busti di Giacometti come Lothar III (1965), il Busto d’uomo del 1961 e il bellissimo Busto di Annette (1961). Se i personaggi vitali ed espansivi del Bernini e le apparizioni ridotte a segni delle figure di Giacometti sembrano segnare due estremi opposti della scultura figurativa europea, i rispettivi busti rivelano una sorprendente, intima affinità. È la vitalità, il movimento, la dimensione momentanea, l’incontro con chi sta di fronte, massimamente espressi nell’acume dello sguardo, che entrambi cercano di cogliere.
Le teste e i busti sono l’alfa e l’omega della scultura di Giacometti. Dopo la fase visionaria delle figure che si ergono incorporee (dal 1947 fino al 1950), l’artista sarà artefice di un nuovo inizio, fondamentale per questo genere. Nei busti di Diego riconquista la massa
plastica. Inizia con opere piuttosto realistiche nella tipologia del primo rinascimento, da lui trasformata e originalmente condotta in diverse direzioni attraverso la ricezione della fenomenologia; celebri sono le teste schiacciate a forma di disco. Nei busti in mostra, la
tipologia tradizionale viene completamente trasformata da questo nuovo stile che disgrega la compattezza del corpo in un’ineffabile agitazione vitale. Le tracce delle dita e della visione dell’artista mentre è al lavoro davanti al modello sono inscritte nell’opera stessa; nel ripercorrerne successivamente le forme, l’occhio dell’osservatore farà rinascere la sua vitale presenza.
La mostra è prodotta e organizzata da Arthemisia Group e vede il contributo di Enel e il
sostegno di Bonelli Erede Pappalardo Studio legale.