La Danza campestre
Guido Reni
Dame e villani, distinti da fogge di abiti e copricapi, sono riuniti in cerchio per partecipare a una festa da ballo, accompagnata dalla musica del liuto e della viola da braccio, al centro di una radura e accanto a un ruscello. Il clima sereno si propaga nel paesaggio retrostante, una collina dolce sormontata da piccoli borghi e da un castello, una vallata verde che si inoltra nella profondità prospettica e conduce al mare, sotto un cielo che comincia a rabbuiarsi e sul quale si stagliano – inaspettato divertissement di Guido – due mosche a dimensione naturale, dell’osservatore e non del quadro. Chi si accorga della loro presenza, in alto a destra, non può non tentare di scacciarle, destinato a mortificarsi per l’inganno, a maggior gloria dell’arte di Guido, della sua perfetta abilità mimetica.
La Danza è un’opera che ha affrontato un lungo viaggio di andata e infine di ritorno nel suo luogo d’origine. Documentata in collezione Borghese sin dal tempo del cardinal nepote Scipione, fondatore della Villa, viene inizialmente attribuita a Francesco Albani ma già nel 1650 è correttamente assegnata al “divino” Reni e riconosciuta, dal consegnatario della Villa Jacomo Manilli, tra le opere esposte nella cosiddetta Sala delle Tre Grazie, oggi Sala IX. Ancora riconosciuta proprietà Borghese a fine Seicento, collocata nel palazzo di Campo Marzio, dove viene ancora descritta alla fine dell’Ottocento, è oggetto in seguito di vendite e passaggi collezionistici che la porteranno a ricomparire sul mercato antiquario londinese nel 2008. Da allora gli studi hanno riassegnato con sicurezza l’opera all’artista e ne hanno enucleato la portata e le specificità in relazione al contesto della pittura campestre, in particolare a Roma e negli anni del suo primo soggiorno, fra il 1601 e il 1614. Da allora è iniziato il viaggio di rientro nella sua prima casa, il Casino della Villa Pinciana oggi Galleria Borghese, dove dal dicembre del 2020 è collocata nella sala di Elena e Paride (XIX) al piano della Pinacoteca, che accoglie Domenichino, i Carracci e Lanfranco, i conterranei emiliani con i quali condivise vita e arte a Roma.