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Strage degli innocenti

Guido Reni


Guido Reni, Strage degli innocenti, 1611, olio su tela, 268 x 170 cm, su concessione del Ministero della Cultura-Pinacoteca Nazionale di Bologna, ph. Marco Baldassari, © su concessione del Ministero della Cultura – Pinacoteca Nazionale di Bologna

Che fai Guido, che fai?

La man, che forme angeliche dipinse,

Tratta or opre sanguigne?

Non vedi tu, che mentre il sanguinoso

Stuol de’ fanciulli ravivando vai

Nova morte gli dai?

O ne la crudeltate anco pietoso

Fabro gentil, ben sai, 

Ch’ancor tragico caso è caro oggetto, 

E che spesso l’horror va col diletto.

(G.B. Marino, La strage de’ fanciulli innocenti di Guido Reni, in La Galeria, 1620)

La strage dei bambini maschi, ordinata dal re giudeo Erode il Grande, è narrata nel Vangelo di Matteo e ha costituito dall’antichità, attraverso il Medioevo e fino all’età moderna, uno dei soggetti iconografici più diffusi in tutte le arti figurative. Le grida mute delle madri, il disperato stringere a sé i figli, le preghiere pietose che nulla possono contro l’efferatezza cieca dei carnefici, si costruiscono in questo grande quadro come un ordito di arti e corpi in tensione estrema, agitati su diagonali di movimento che si intersecano dilatando il sentimento di impotenza e orrore di chi guarda e che sono per paradosso smentiti dalle vesti voluminose, dai colori pieni. Guido affronta la narrazione della violenza più brutale incardinandola nella sua nuova idea di bellezza e perfezione: una concezione che fa nascere l’ossimoro alla base della poesia di Giovan Battista Marino: nelle forme senza tempo della perfezione artistica la tragedia si tramuta in bellezza e “l’horror va col diletto”.

L’artista eseguì il dipinto per i bolognesi Conti Berò ma lo fece presumibilmente a Roma, perché evidentissimo è il debito che qui contrae con l’universo classico e romano, della statuaria antica come degli esiti pittorici rinascimentali e addirittura caravaggeschi. Non è possibile guardare alla madre in primo piano a destra senza richiamare la scultura della Niobe – parte della serie nota come Niobidi, rinvenuta nel 1583 a Roma e oggi agli Uffizi di Firenze – con la quale condivide puntualmente la testa rivolta al cielo e le labbra socchiuse nello sgomento; come non si possono non chiamare in causa celebri incisioni, di Andrea Mantegna, di Marcantonio Raimondi da Raffaello – pur in assenza di citazioni dirette – per giustificare le sovrapposizioni dei corpi, le loro pose, la distribuzione bilanciata degli spazi. Anche se in questo magnifico dipinto vige potente l’assimilazione della lezione di Raffaello, è innegabile riconoscervi lo sguardo a Caravaggio, al suo Martirio di San Matteo nella Cappella Contarelli, al quale Guido cattura il bambino spaventato in braccio alla donna che chiude la quinta destra. 




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