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Tiziano, Ninfa e pastore, 1570- 1575 olio su tela, cm 149,6 x 187 Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie, inv. GG 1825

Non sono note le notizie sulla committenza di questo dipinto, sempre riferito alla produzione molto tarda di Tiziano. È invece ampiamente accertata la provenienza dall’importante raccolta del mercante veneziano Bartolomeo dalla Nave, acquistata dal visconte Basil Feilding, ambasciatore straordinario inglese a Venezia, per conto del cognato James, terzo marchese di Hamilton: senza pagare dazio, a Feilding fu consentito di caricare sopra un vascello inglese, tra l’altro, venti casse di quadri, segnate all’esterno con l’arme dell’ambasciatore, che arrivarono a Londra nell’ottobre del 1638. Il dipinto, registrato come Venere e Adone, rimase presso la residenza del duca di Hamilton fino al 1643, quando, a seguito delle vicende della guerra civile, i quadri furono confiscati, affidati a Feilding e poi, dopo la sua morte nel 1649, messi in vendita e acquistati dall’arciduca Leopold Wilhelm andando ad arricchire significativamente la sua collezione d’arte, conservata fino al 1656 a Bruxelles, dove l’arciduca risiedeva come governatore dei Paesi Bassi, e quindi trasferita a Vienna, dove, prima di entrare nelle collezioni imperiali (1662), fu presso la residenza personale dell’arciduca (Stallburg) ricordata da un inventario (1659) come “Nimpfa” e “Hierth”, cioè Ninfa e pastore

Si tratta di un’indicazione che rinuncia ad indentificare i protagonisti per considerarli in un contesto pastorale, ma non bucolico, dell’ambientazione complessiva. La scena si svolge infatti in un paesaggio, accennato nei suoi elementi essenziali, tracciato a “colpi rissoluti, con pennellate massiccie di colori”, quella tecnica così ben descritta da Palma il Giovane, che era stato nella bottega di Tiziano, nel racconto riportato da Marco Boschini. 

Questa natura, solo apparentemente informe, è lo spazio di azione della coppia di giovani e del capro, intento a cibarsi di un ramo che si staglia contro il cielo, ben lontano da sembrare abbozzato, costruito invece macchia su macchia con il preciso intento di restituirlo denso e inquieto, per il tramite di “colpi” di rosso e più spessi impasti di biacca.   

Il primo piano è interamente occupato dai due protagonisti principali di questo racconto: il giovane è seduto su un rialzo naturale creato dal terreno, tiene l’accordo di un flauto a becco che tuttavia non suona, guarda la donna, girata di spalle e distesa su un fianco accanto a lui, colta nell’attimo di voltarsi verso il compagno di questo gioco d’amore, senza tuttavia giungere a incrociarne lo sguardo. La fanciulla è adagiata su una pelle maculata di leopardo che le fa da giaciglio, e che, per la parte della coda, è appoggiata sulla spalla destra del giovane; i piedi, pure scalzi, sono distesi su un tappeto erboso, di cui sono evidenziati i ciuffi d’erba per mezzo di  “pennellate massiccie” di giallo; è quasi completamente nuda, e quel sottile drappo sul tono del bianco misto a giallo oro non le copre che una spalla, per poi ricadere morbido sulla schiena, lasciata scoperta, fino a cingerle la vita; mostra solo una mano, indolente, con la quale sembra accarezzarsi, aggiungendo dunque carica erotica ad un contesto già assai esplicito. I due personaggi sono sotto una quercia, tra i pochi elementi davvero “naturali” di una natura per nulla arcadica: l’altro è il ramo frondoso di cui si ciba il capro, sola parte viva, ma ancora per poco, di un albero di cui rimane un tronco, già in parte inesorabilmente secco.     

 

Strettamente legate ai tentativi di comprensione della scena, sono le diverse ipotesi volte all’identificazione dei due protagonisti: da abitanti dei boschi in un mondo di natura, e dunque una ninfa e un pastore, ad allegoria del rapporto in chiave platonica tra i sensi della vista e dell’udito, ovvero Diana e Endimione, Dafni e Cloe, Medoro e Angelica, Orfeo e una Menade. Oppure Paride ed Enone, secondo la lettura di Erwin Panofksy (1969). I due personaggi sono stati anche identificati come Arianna e Dioniso: a Bacco si riferirebbero la corona di pampini che cinge il capo del giovane e la pelle di leopardo; mentre la giovane sdraiata, forse appena sveglia vista la estrema rilassatezza del corpo, potrebbe di conseguenza alludere ad Arianna. 

Sebbene l’individuazione dei protagonisti possa aiutare a circoscrivere un contesto di riferimento, mitologico con tutta probabilità, il significato rappresentato è universale, e sempre riconducibile per il vecchio Tiziano a un malinconico, inutile rimpianto per un umanesimo, e per una umanità perduta. 

Non è un caso che qui venga usato un tema già affrontato nel corso della sua produzione e in particolare nelle Tre età di Edimburgo. Con alcune significative differenze: nel dipinto di Edimburgo il giovane è quasi completamente nudo, qui è ben vestito benché scalzo; là si contano tre flauti – uno, quello del giovane, ben poggiato a terra, gli altri due nelle mani della fanciulla – qui il giovane tiene l’accordo dell’unico flauto presente; là la donna è vestita, ed è protagonista del gesto amoroso, qui è nuda, e distesa a terra. Le ambientazioni paesaggistiche delle due opere dipinti sono apparentemente quanto più di diverso si possa immaginare, certo anche grazie alla distanza cronologica che li separa: in entrambi le scene si concretizzano però in una Natura che è luogo dell’agire degli uomini e riflesso significante delle loro tensioni, cadute, ambizioni. Che alla fine di una vita spesa alla ricerca del tocco d’oro, diventa pensiero malinconico sulla inutilità dell’esistenza, rifiuto della dimensione arcadica e presenza dirompente nella storia, del tempo che divora ogni cosa. 

 




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