LA GALLERIA BORGHESE RACCONTA UN CAPOLAVORO: IL BUSTO DI SCIPIONE BORGHESE DI BERNINI
Il cardinale Scipione Caffarelli Borghese – nume e creatore della Villa Pinciana – era figlio di Francesco Caffarelli, nobile ma spiantato, e Ortensia Borghese, sorella del pontefice Paolo V. Braccio destro dello zio papa, insaziabile collezionista, non fu un intellettuale, ma un uomo di grande curiosità, dotato di occhio e gusto impeccabile per l’arte e di interessi che spaziavano dalla musica alla botanica alla politica.
Gian Lorenzo Bernini lavorò lunghi anni per lui e questa frequentazione portò a una profonda conoscenza fra i due. Tutto quello che Bernini sapeva del carattere del Cardinale è magistralmente condensato nel busto che lo ritrae.
Bernini è stato un ritrattista fenomenale. Le sue prime prove risalgono all’adolescenza, quando era allievo di suo padre Pietro. Nei ritratti Bernini non si accontenta mai di rappresentare il sembiante del committente, vuole coglierne l’indole e l’anima. Vuole infondere vita alla pietra. Per far questo sa che deve superare il problema dell’assenza di colore del marmo: il bianco priva i personaggi di quegli elementi cromatici che sono così distintivi. Ma la lavorazione del marmo di Bernini è così sensibile, che riesce a conferire alla pietra effetti tattili, a trasformarla in pelle cadente o ciglia o seta o barba mal rasata e a suggerire il colore.
Il Busto di Scipione è uno dei vertici della ritrattistica berniniana. Lo scultore riteneva che per cogliere la verità di una persona bisognasse osservarla in movimento: così anche in questo caso eseguì numerosi disegni del cardinale, mentre parlava e si muoveva, da diverse angolazioni. Ne restano un paio, un disegno di profilo e una caricatura che testimonia anche lo spirito irriverente dell’artista, oltre alla sua fulminea capacità di sintesi.
Rudolph Wittkover ha parlato a proposito dei ritratti di Bernini di “speaking likeness”, somiglianze parlanti. È evidente in questo ritratto, in cui il cardinale è colto nel momento in cui sta per parlare, le labbra appena schiuse, gli angoli ancora incollati. Un attimo di sospensione, mentre gira lievemente testa ed occhi come attratto da qualcosa, sintomo della sua avida curiosità, dei suoi mille interessi; le carni flosce delle guance, la pappagorgia ci rivelano invece il suo amore per la buona tavola e in generale si percepisce la volitiva voracità del personaggio. Con assoluta capacità mimetica, Bernini ha graffiato il marmo con la raspa e è riuscito a trasformarlo nella vera pelle del cardinale, segnata dal tempo.
Ma tutta questa meraviglia venne tradita dal marmo stesso. Un “pelo” nel blocco si aprì fino a spaccare la scultura tutto intorno alla testa. Bernini riparò il danno con un tassello e un perno nascosto all’interno. Ma la frattura era comunque visibile e il busto rovinato. Allora decise di scolpirne uno nuovo in tempi rapidissimi: in tre giorni, secondo il figlio Domenico. O “nel corso di quindici notti”, come scrisse il biografo Baldinucci. In ogni caso un’impresa, che testimonia una volta di più la disinvoltura di Bernini nel maneggiare il marmo. Le due versioni, a prima vista identiche, si differenziano per alcuni dettagli: le pieghe della mozzetta cardinalizia, la levigatura, più uniforme nella seconda versione ma meno “mimetica”.
Entrambi i busti sono sempre stati esposti nella Villa, il primo era nella Sala degli Imperatori, il secondo al primo piano in una galleria di ritratti. Ora sono insieme a confronto nella Sala XIV.